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Trasparenza

Cos'è cambiato a dieci anni dal crollo del Rana Plaza?

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Dieci anni sono passati dal 24 aprile 2013, quando 1.138 persone rimasero uccise sotto le macerie del Rana Plaza, in Bangladesh. Non fu una tragedia inaspettata. Diversi incidenti avevano già colpito alcune fabbriche di abbigliamento limitrofe, ma il crollo del Rana Plaza ebbe una portata mediatica senza precedenti nel settore, aumentando l’attenzione dei cittadini e delle autorità sugli impatti del mondo della moda.


Cos'è successo al Rana Plaza?


Il grande complesso nella periferia di Dacca ospitava diversi negozi e fabbriche di abbigliamento e una banca. Il 23 aprile 2013, alcune lavoratrici notarono alcune crepe strutturali nell’edificio. La banca e i negozi decisero di chiudere, mentre chi lavorava nelle fabbriche fu obbligato a tornare il giorno successivo per non perdere il posto e il salario.


Il crollo del Rana Plaza distrusse intere famiglie. Solo dopo alcune settimane fu possibile chiarire il numero delle vittime (per l’80% donne) e non tutti i dispersi furono trovati. Almeno altre 2.600 persone rimasero invece ferite o invalide.


“Hanno cercato di spostare a mano le lastre di cemento sopra di noi. Le persone mi tiravano da entrambi i lati finché sono riuscite a tirarmi fuori. Il peso del cemento aveva compromesso l’utero, che mi hanno dovuto rimuovere completamente quella sera stessa”, ha raccontato una delle sopravvissute, Shila Begum.


Secondo la Federazione internazionale dei diritti umani, le responsabilità vanno condivise tra le autorità del Bangladesh, che non hanno protetto i lavoratori, i proprietari dell’edificio e i brand che sfruttavano la produzione e tardarono ad assumersi le loro colpe.


Cos'è il Rana Plaza Arrangement e quali progressi sono stati fatti per la sicurezza dei lavoratori?


Sotto la pressione di movimenti e campagne, qualche mese dopo la tragedia venne firmato il Rana Plaza Arrangement e un accordo internazionale per la salute e la sicurezza dei lavoratori nell’industria tessile e dell’abbigliamento.


Il primo è uno schema di risarcimento coordinato dall’Organizzazione internazionale del lavoro, per il quale fu necessario un processo lungo e complicato. Durante i giorni successivi al crollo, infatti, nessun brand ammise di rifornirsi da quelle fabbriche, ma molto etichette con i loro nomi vennero trovate da coloro che scavavano. Per la prima volta, i risarcimenti vennero riconosciuti in base alla convenzione sugli infortuni sul lavoro. 30 milioni di dollari furono raccolti.


Il secondo accordo, firmato da più di 200 brand, è stato già rinnovato due volte e prevede ispezioni qualificate e indipendenti per far in modo che i lavoratori possano essere più sicuri di dieci anni fa. Essi vengono adeguatamente formati in ambito sicurezza e possono fare segnalazioni anonime se riscontrano qualche problema. Recentemente ha iniziato a essere adottato anche da alcuni brand in Pakistan.


Secondo Action Aid, il 50% dei superstiti non riesce però a trovare lavoro, in particolare a causa delle problematiche respiratorie e delle lesioni alle mani e agli occhi provocati dall’incidente.


I salari dei lavoratori della moda sono ancora insufficienti


Nonostante gli importanti risultati raggiunti nell’ultimo decennio in alcuni Paesi come il Bangladesh, i lavoratori del mondo della moda continuano a essere schiacciati dalle richieste di una produzione sempre più veloce e a costi più bassi e le norme di sicurezza in molti Stati continuano a non essere pienamente rispettate.


Inoltre, rimane il problema dei salari troppo bassi. Uno studio di Deloitte Access Economics ha rivelato che solo il 4% del prezzo di un capo va a chi effettivamente lo produce. Secondo una ricerca dei brand ABLE and Nisolo, solo il 2% dei lavoratori nel mondo della moda riceve un salario che permette di coprire le necessità più basilari.



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